Al momento in cui questo articolo viene pubblicato, casa mia ospita n°2 scaffalature IKEA, modello Kallax squadrato, 147x147, color betulla chiaro, facenti residenza a un numero di giochi la cui entità preferisco non dichiarare pubblicamente, perché penso che farlo potrebbe farmi sembrare quel genere di nerd incallito che acquista n°2 scaffalature IKEA, modello Kallax squadrato, 147x147, color betulla chiaro, per tenere ordinata la propria collezione.
Il numero imprecisato di giochi che possiedo è stato acquisito in anni di sacrifici e stenti. Per alimentare il mio stile di vita ludicamente dissoluto, mi sono privato (e mi privo tuttora) di un numero consistente di potenziali pasti e beni essenziali, cosa che, messa così, è un bel carico mentale da gestire.
In effetti, da quando ho realizzato questa cosa, vivo peggio.
Ogni tanto passo in rassegna i miei giochi e penso: Le Case della Follia, sessanta chili di spaghetti; Terra Mystica, centoventi rotoli di carta igienica; Scythe, ben due copie di Twilight Struggle, e via dicendo.
Eppure a dispetto di tutti gli sconforti, non penso mai che preferirei barattare una delle scatole residenti nelle mie scaffalature per un paio di cartoni di pizza, o per qualsiasi altro articolo che possa aggiustare per il meglio il mio bilancio calorico o patrimoniale. Non ci vado mai neppure lontanamente vicino.
Anzi, mi risulta molto più semplice il percorso contrario, ovvero: pasti più frugali, mucchio più peccaminoso. Lo faccio spesso e volentieri, ed è in effetti questa incapacità di ribaltare l'equazione che mi fa, come dicevo, vivere peggio... almeno secondo l'opinione del non-giocatore.
Quello che mi è toccato spiegare troppo spesso a chi non condivide le mie priorità è che non si vive di solo pane: soddisfatti i bisogni essenziali, residuano tutta una serie di esigenze ulteriori da soddisfare. Stabilità finanziaria, sicurezza personale, serenità mentale. Soprattutto, va soddisfatto quel particolare bisogno di sentirsi parte di una società di eguali, e di obbedire alle sue regole.
Come me, ci sono decine e decine di clienti IKEA che confermerebbero: quello che si acquista con ogni gioco non è tanto la componentistica, ma il regolamento che descrive come farne uso in modo produttivo.
Ed anzi, ancora di più, quello che si ricerca, è il risultato ultimo dell'impiego di tutti i dadi, le carte e le regolette: un mezzo per invocare un contratto sociale tacito, un rito in cui ogni partecipante è sacerdote e il cui fine ultimo, come ogni rito che si rispetti, è la creazione di una situazione sociale del tutto particolare, strumentale all'elevazione (emotiva, mentale, a volte anche spirituale) di chi ne prende parte, e mai alla semplice esplorazione del presupposto che ha portato a tenerlo in forma pubblica.
In parole povere: si va a messa non per fare presenza, ma per volontà di partecipare (e se no, si starebbe tutti a casa a pregare da soli con un mazzo di carte francesi).
E la messe migliori, manco a dirlo, le ho fatte da ubriaco.
Cecchino è un gioco molto semplice: se un giocatore grida “Cecchino!”, tutti gli altri devono toccare il tavolo con la fronte. L'ultimo, deve bere qualsiasi cosa si trovi nel suo bicchiere.
Capirete, che questo genere di gioco non ha particolari risvolti tattici o narrativi. Non è un Terraforming Mars con le sue risorse e fonti produttive, e non è un C'era una Volta, con le sue storie improvvisate. È un pretesto per bere. E per bere molto.
Tuttavia, è un gioco divertente. E non ci è mai venuto in mente che avremmo potuto evitare del tutto di giocarci, se il nostro fine era semplicemente quello di alzare la percentuale di alcool nel nostro sangue.
Il motivo per cui non ci abbiamo mai nemmeno pensato è semplice: noi, da ragazzini che eravamo, non volevamo semplicemente ubriacarci, ma trarre dal bere la situazione il più divertente possibile (per citare chi ne sa più di me: “c'è una certa mistica soddisfazione nel vedere cinque persone sbattere la testa su un tavolo allo stesso momento”).
Tutto il comparto dei giochi alcolici ha questo scopo. Non offrire un pretesto per consumare, ma generare una situazione in cui ciascuno dei presenti si sente accolto e in sintonia col gruppo con cui ha, volontariamente, scelto di bruciare decine di migliaia di neuroni (le testate al tavolo, non a caso, sono perfettamente a tema).
Ecco quindi che mi sento di definire una prima regola universale del gioco: non conta cosa, ma conta il come. Non importa quale intrattenimento viene apparecchiato, ma solo se chi partecipa desidera mettersi in discussione, perché il contratto sociale che unisce i giocatori-etilisti è la voglia di condividere le proprie debolezze, non quella di prevaricare e offendere per una qualche mancanza, o esaltare la propria specialità. In pieno spirito olimpico: vincere non è lo scopo. Ecco perché perdere in buona compagnia mantiene sempre il suo fascino.
E ad alcuni giochi, vincere o perdere non è nemmeno veramente possibile.
L'intero novero dei Giochi di Ruolo, sposa questa filosofia. Si gioca e si interpreta, si vive un personaggio e lo si manda all'avventura. Come per qualsiasi storia d'avventura, è il viaggio che conta.
Qualche tempo fa stavo giocando a Lovecraftesque con un gruppo di amici e appassionati, durante una serata regolare al Simposio (quella sera non avevo particolarmente voglia di spiegare alcunché). Il concetto del gioco, per riassumerlo in qualche parola, è: a turno, un giocatore narra una storia dell'orrore che un altro giocatore vive nei panni di un protagonista condiviso, mentre tutti gli altri aggiungono dettagli alla situazione. Alla fine il protagonista deve inevitabilmente restare segnato dall'esperienza.
La storia aveva preso questa piega: nel round di gioco, era mio turno di interpretare il protagonista, un possidente di mezza età, padrone di schiavi in Africa. Questi è perseguitato da uno spirito tribale dalle sembianze di gorilla, da cui cerca di fuggire. Arrivato al porto di una delle grandi città della colonia dove ha i suoi affari, accompagnato dalla schiava da cui ha avuto segretamente un figlio, vede la sagoma della creatura avvicinarglisi, mentre è rintanato nella sua automobile.
Questa la premessa, ed Emanuele era il narratore della scena. Ben presto, la presenza del mostro, da lui evocata, riduce il mio personaggio a un lento devolvere selvaggio. Mentre suda e stringe i denti alla vista dell'impossibile, e mentre tenta di proteggere la donna che ama, tiene stretto tra le mani il suo fucile, puntandolo davanti a sé, minacciando di usarlo.
Sia Emanuele che io sappiamo però che il gioco, in questo stadio della partita, non consente alcuna violenza: non è ancora possibile che alcun atto sanguinoso accada davanti agli occhi dei giocatori, né che sia portato a termine fuori scena.
Eppure, il primate avanza inesorabile, e pare proprio non esistano altre soluzioni. Quel fucile deve sparare. Non c'è regola che tenga.
Il mostro si avvicina. Allunga le mani nella cabina. I suoi artigli a pochi centimetri dal mio volto.
Le regole dicono che non può accadere nulla... Ma Emanuele ed io ci guardiamo. E qualcosa scatta.
Tutti al tavolo restano con il fiato sospeso.
Il fucile spara.
…E fa cilecca.
La scena si conclude di lì a pochi istanti, con il nostro protagonista ridotto al silenzio, ad osservare il nulla davanti a sé. Nessun gorilla, nessuno stalker soprannaturale alle calcagna. Non c'era stato nessun trionfo, e semmai tutti quanti avevamo la conferma che il personaggio che avevamo creato (e per cui avevamo speso un'ora buona per definirne le caratteristiche) era un passo più vicino alla follia e, per esteso, a una brutta e tragica fine.
Eppure, tutti noi eravamo soddisfatti del risultato: nessuno di noi voleva vincere e abbattere la creatura. Non ci avevamo nemmeno pensato: eravamo troppo impegnati a seguire il corso delle nostre piccole intese e della storia, e a farci assorbire dalle logiche del gioco a cui avevamo deciso di partecipare. Quello che cercavamo era la perfetta intesa che si può raggiungere solo condividendo un momento del genere.
Dunque, ancora una volta, non il fine, ma il viaggio e la scoperta e l'evoluzione e, perché no, il ricordo e la creazione di un legame, allo stesso modo di quel gruppo di giocatori che ci stava vicino quella sera a giocare alla versione italiana di Cards Against Humanity, o di chi affronta un rito di passaggio.
Di lavoro, io insegno.
Per la precisione, insegno inglese a bambini dai 3 ai 6 anni, nelle scuole materne.
Anzi, “insegnare” non è nemmeno un buon termine: io “gioco” a bambini dai 3 ai 6 anni. Quindi, in pratica, gioco buona parte della mia settimana, per lavoro e per motivi associazionistici (di svago, per compensare, compilo gli F24).
Gioco perché i miei bambini, di base, non sanno una parola di inglese, e non hanno un gran interesse per la grammatica italiana (figuriamoci per quella di una lingua diversa). L'unico modo con cui connettere con loro, fuori dalle maglie dell'imposizione coatta, è sfruttare il loro desiderio di fare e sapere, declinato nella loro specifica individualità o, in altre parole, del tutto limitato a quello che loro stessi intendono come interessante.
Ora, può essere difficile tracciare un segno comune per coinvolgere ogni singolo bambino: ognuno di loro ha i suoi specifici interessi, e solo quelli ha... Ma ciascuno di loro ama giocare. E data questa premessa, il mio lavoro è effettivamente trovare il gioco giusto per ciascuno di loro, e iniettare una lezione in quel gioco.
Sarebbe però un errore pensare che questo processo sia svolto all'insaputa del bambino e senza alcun capo né coda: al contrario, il bambino è perfettamente a conoscenza di quello che sta succedendo, e anzi ha una dimestichezza così avanzata (preferisco pensare “naturale”) col concetto di contratto sociale da non aver nulla da invidiare ai suoi colleghi adulti (e in certi casi, l'invidia segue un senso opposto), al punto che spesso le regole assumono una dimensione giustamente secondaria e malleabile.
Molte volte, ci troviamo a scambiarci ruoli e personaggio per il puro gusto di farlo, a stabilire nuovi obiettivi in sostituzione di vecchi superati e noiosi, a colmare lacune lasciate dal gioco a fronte di una situazione imprevista. La cosa più interessante, tuttavia, è che non accade mai che si esca dal rito: la regola viene piegata, sovvertita, discussa, ma mai dimenticata. Il gusto del gioco, in effetti, sta proprio nel prendere il contratto sociale e testarne i confini, che è il modo in cui il bambino comprende il valore del contratto stesso.
Quindi, quando io, consapevolmente, fingo di dimenticare una regola o scambio un'azione per un'altra (poniamo, toccandomi il sedere quando declamo tronfissimo “nose”), il godimento del bambino raggiunge il massimo grado, e le risate abbondano. A nessuno di noi viene minimamente in mente di inorridire di fronte allo sbaglio, o provare vergogna o confusione: la messa, si sapeva già, era in realtà una messa in scena, nella totale certezza che l'errore è perdonabile ed è parte del gioco. A conferma di un sottofondo preciso: in un gioco, a differenza della vita vera, non c'è punizione per chi sbaglia, perché non c'è nessuna posta in gioco, se non quella della creazione di una comunità e della mutua assicurazione che tutto è accettato e che niente conta se non la volontà di stare insieme.
Quindi, date tutte queste premesse, esiste in fin dei conti un ben preciso filo conduttore nel gioco sociale.
Ed è il bisogno comune di tutti di riconoscersi nell'altro e trovare approvazione, di testare i propri limiti nella società, di assicurarsi e assicurare che non c'è alcun pericolo all'orizzonte, ma solo voglia di stare insieme, che tutto passa e che tutto si risolve se solo lo si vuole, indipendentemente da quante scaffalature si è deciso di acquistare per dar casa ai propri misfatti.
In fin dei conti, giocare lo si fa per risollevarsi dopo una dura giornata di lavoro, per ammazzare la noia, dimenticare un problema, o per riallacciare i contatti con vecchi e nuovi amici o per qualsiasi altro fine che aiuti a trovare una meritata serenità.
Così che, quando il rito giunge al termine e i sacerdoti concludono la loro omelia, tutti quanti possano andarsene migliori di quando sono arrivati. Così che si possa dire tranquillamente: “la messa è finita, andate in pace”.